Il linguaggio del corpo fa parte della comunicazione non verbale. In quest’ambito si interpretano, ai fini dell’interazione sociale, postura, gesti, movimenti, espressioni e mimica che accompagnano o meno la parola rendendo la comunicazione umana più marcata, ancora più chiara e comunicativa.

Come può la disposizione spaziale degli alunni in una classe influenzare la comunicazione tra loro e con l’insegnante ?

 

L’idea di interessarmi di un certo tipo di comunicazione che si stabilisce all’interno di alcune classi di studenti, di età compresa fra i dieci ed i quattordici anni, mi è scaturita durante la visita ad una mostra in cui spesso apparivano quadri che illustravano ritratti di gruppi. E’ sottinteso che un pittore o un fotografo presenta la propria opera disponendo i personaggi con una struttura spaziale ben chiara, specifica, che deve imporsi allo spettatore che va al museo o nelle gallerie per interesse e non per mero passatempo.

Nel dipinto come nella fotografia, il gruppo è fissato in un momento, sempre lo stesso, che permette l’accurata analisi delle distanze interposte fra personaggio e personaggio, fra gruppi di personaggi, fra un singolo ed un gruppo, in tutte le varianti che il pittore o il fotografo sfrutta per dirci, attraverso l’immagine, perché Tizio è in primo piano e perché Caio è relegato in fondo alla scena.

Tale analisi non è possibile con i gruppi reali tipo il “gruppo classe” perché quando si trovano in condizioni obbligate che impongono una certa regola di comportamento e quindi di immobilità,  gli stessi tendono comunque a mutare la disposizione spaziale per i più disparati motivi.
L’insegnante quindi in aula agisce a volte come un pittore o un fotografo che, in relazione allo spazio a disposizione, dispone le persone in modo tale che gli esseri umani coinvolti comunichino tra loro attraverso un linguaggio talvolta silenzioso.

La disciplina, meglio definita come una scienza, che studia l’insieme di osservazioni e teorie sull’uso umano dello spazio è la “prossemica”. Questo termine fu coniato dal famoso antropologo statunitense Edward Hall il quale negli anni sessanta-settanta, viaggiando molto, osservò come i sistemi culturali influenzino l’uso dello spazio e come tale uso influenzi la comunicazione fra le persone.

Anche altri antropologi insieme a sociologi e psicologi si sono interessati del problema. Già negli anni quaranta lo psicologo sociologo Kurt Lewin getta le basi di una geometria della comunicazione che analizza “lo spazio di vita” dell’essere umano; del dilatarsi o del restringersi di tale spazio in virtù dell’età o di altri fattori.

Quanto sopra detto mi ha portato a fare attenzione, da un po’ di tempo, all’influenza che esercita sulla comunicazione, verbale e non verbale, la disposizione spaziale degli allievi in alcune classi della scuola media inferiore anche se credo che tale problema lo si può riscontrare anche in altri ordini e grado di scuole.
Ogni anno, nella scuola in cui vengo chiamata per svolgervi l’attività di insegnante, passo i primi giorni ad osservare le classi, la disposizione dei banchi e degli alunni e mi rendo sempre più conto che la disposizione spaziale degli scolari offre una notevole gamma di informazioni circa le forze di attrazione e di repulsione che agiscono nei rapporti comunicativi dei ragazzi.

 

Di solito nelle classi, che a volte sono piuttosto numerose, tutti gli alunni sono in due in un banco ma può capitare che un alunno sia da solo. Magari è il classico alunno ancora immaturo, iperprotetto dai genitori che gli proibiscono di uscire dopo le ore di scuola per timore che possa accadergli qualcosa di spiacevole. Ma “Paolo” (nome fittizio) ha un grande bisogno di comunicare e cerca di recuperare nell’ambito della classe quanto, in termini di socializzazione, dovrebbe apprendere fuori della famiglia e della stessa scuola. Paolo comunica in maniera sbagliata, attraverso strategie che secondo le sue aspettative dovrebbero sollecitare la pietà, il consenso e l’accettazione. Enfatizza gli eventi della propria famiglia, spesso racconta cose che non corrispondono alla verità e più volte è stato messo allo scoperto dai compagni i quali però non percepiscono quale sia il bisogno che spinge Paolo ad inventare storie mirate per attirare l’attenzione. La classe lo isola e ciò determina un autoisolamento che concorre al peggioramento del comportamento di Paolo che offende tutti. I più maturi lo ignorano, tutti gli altri ricambiano gli insulti.

Altro esempio, una classe in cui gli alunni sono disposti in due fasce; la fascia che comprende i banchi di prima linea dove siedono gli alunni “bravi” e la fascia dei banchi di fondo dove siede, come mi ha riferito un’alunna sveglia, intelligente, ma con profitto un po’ scarso, “la marmaglia” ovvero gli emarginati, quelli che non studiano. Questa struttura spaziale, con la barriera fisica e psicologica che frammenta la classe in due parti: “bravi” e “non bravi”, non potrà mai agevolare la comunicazione gruppale. Ogni volta che un elemento della “marmaglia” viene chiamato per essere interrogato e purtroppo, come previsto, si blocca o sbaglia, un elemento della prima fascia, quella dei “secchioni” interviene per correggerlo (a volte con l’approvazione dell’insegnante). La ragazza che mi ha comunicato tutto ciò, affidabile ed onesta, mi spiega perché ammette di non rispondere mai all’interrogazione e ne conosce il motivo: il suo blocco è la paura di essere derisa qualora dai compagni qualora dovesse sbagliare.

Quanto detto chiarisce uno dei principi fondamentali della prossemica: distanze spaziali sbagliate generano comunicazione ambigue, sbagliate e controproducenti.
Perché, mi chiedo, ancora in molte scuole italiane si dispongono gli alunni a due a due nei banchi? Non è possibile, nello stesso spazio, disporli in ordine circolare? Forse non è possibile. Oppure una sorta di pigrizia mentale e fisica o il timore di rompere con la tradizione induce a conservare un assetto spaziale del tutto deleterio per la comunicazione?

Salute inGrata_Pubblicazione periodica_Ottobre 2016