Il mondo odierno è sempre più globalizzato, e anche la dimensione carceraria vive oggi la forte presenza di etnie sempre più varie, ciascuna con le sue abitudini, comportamentali e religiose, e soprattutto ciascuna con la sua propria lingua. Per riuscire a non farsi isolare da questa vorticosa globalizzazione, ecco l’esigenza di conoscere lingue straniere, proprio per riuscire ad allacciare quei rapporti interpersonali oggi sempre più richiesti. Ho diversi anni di insegnamento alle spalle e spesso mi sono sentita dire dai miei studenti: “Non sono portato per le lingue…” oppure “Una seconda lingua? Quando devo leggerla la capisco, ma quando si tratta di parlare, non ci riesco proprio…”. Quante volte chi insegna una seconda lingua si è trovato davanti ad affermazioni di questo tipo! Ma che cosa significa “non essere portati per le lingue straniere”? Ci sono diversi esperimenti pedagogici a riguardo, che hanno cercato di determinare se un talento innato esista oppure no. In effetti è stato dimostrato che, fin dai primissimi anni di vita, i bambini sviluppano delle preferenze maggiori per certi argomenti piuttosto che per altri.  Ma si può veramente parlare di talento innato, o forse è solo esperienza? Il talento è da considerarsi una forma di predisposizione genetica o altro non se non il frutto di tanto, tanto allenamento? Vediamo un po’ di capire che cosa significa essere predisposti per l’apprendimento delle lingue, di che cosa si tratta e se esistono strategie possibile per aumentarlo. Innanzi tutto, parlando di predisposizione, si fa riferimento a due particolari aspetti: la ricezione e produzione dei suoni e la volontà di comunicare. Ad esempio, una persona nata e cresciuta in un paese di lingua romanza, cioè appartenente a quelle lingue derivate dal latino, non avrà grosse difficoltà ad apprendere lo Spagnolo, l’Italiano o il Francese piuttosto che il Romeno. Viceversa, persone nate in paesi anglosassoni, piuttosto che in zone di lingua spagnola, troveranno molto ostico l’accostarsi a lingue come il Giapponese o il Cinese. Gli studiosi, infatti, riconducono quest’ultimo aspetto all’analisi sonora, cioè alla capacità di una persona di riprodurre con la propria voce ciò che è in grado di percepire e di discriminare: “posso ripetere solo i suoni che sento…”.  Si potrebbe quindi dire che si è portati per le lingue quando il nostro orecchio è capace di captare un’ampia gamma di suoni; se si percepiscono meno suoni significa che non si è portati, perché la gamma di suoni percepiti dal proprio orecchio è inferiore a quella usata dalla lingua che si vuole studiare. In merito al secondo aspetto, quello della comunicazione, non è così scontato che ci sia sempre voglia di comunicare. Ad esempio, prendiamo quella categoria di persone, bambini, adolescenti o adulti che siano, che per carattere o semplice timidezza hanno una certa incapacità di mettersi in relazione con altri: magari a volte sono anche inconsapevoli di questa loro incapacità e la loro chiusura alla comunicazione diventa quasi una forma di difesa. Questo meccanismo di difesa accade spesso nelle aule scolastiche, quando alcuni studenti, terrorizzati dal giudizio altrui, pur avendo desiderio di comunicare fanno scena muta per “paura di sbagliare” ed essere così mal giudicati. Ecco quindi che la “predisposizione” alle lingue straniere è molto più evidente nella misura in cui un individuo si sente libero di vivere relazioni comunicative serene, dove la mente non sente il bisogno di costruire meccanismi di difesa nei confronti del giudizio degli altri e quindi può cercare di dare sempre e solo il massimo. Come si diceva all’inizio, essere portati o meno per lo studio delle lingue, non è solo un problema di tipo acustico, ma anche relazionale, perché laddove ci fosse una buona percezione dei suoni, ma non vi fosse una volontà di mettersi in gioco come persona, l’apprendimento delle lingue sarebbe incompleto e poco funzionale. Le lingue sono un sistema elaborativo e uno strumento comunicativo interpersonale, perciò per essere portato per le lingue occorre, oltre ad un orecchio pronto, una identità che si senta a proprio agio tanto nel pensare quanto nel dare e ricevere comunicazioni.  Non c’è predisposizione per le lingue se non c’è voglia di comunicare; non c’è voglia di comunicare se, per i più svariati motivi, consciamente o inconsciamente, non ci si sente degni di vivere una relazione, sia intrapersonale che interpersonale. Per costruirla, verso se stessi e verso gli altri, occorre che si tenda alla realizzazione di tre condizioni: che ogni persona sappia accettare se stessa, che ogni persona sappia accettare l’altra così com’è, che ogni persona sappia dare e ricevere informazioni.

Salute inGrata_Aprile 2016